Engagement e Leadership Trasformativa: il ruolo delle persone per la svolta digitale

Intervista a Marta Bertolaso, Professoressa di Filosofia della Scienza e Sviluppo Umano all’Università Campus Bio-Medico di Roma

L’engagement, il coinvolgimento, è sentirsi parte della squadra, avere un ruolo nella partita ed è un’attività strettamente connessa alla Leadership Trasformativa

Stiamo vivendo un cambiamento d’epoca, in cui le crisi si susseguono repentinamente: prima quella sanitaria legata al Covid, poi la guerra, l’inflazione e la crisi energetica. Il concetto di “normalità” cui siamo legati sembra allontanarsi, sfumare, forse svanire. Al contempo si apre un nuovo scenario ad alto tasso tecnologico, dominato dalla chiamata alla transizione digitale. Imprese, società e singoli individui: tutti sono coinvolti in questa trasformazione, che impatta sul lavoro ma anche nella vita personale e di relazione.

Ne abbiamo parlato con Marta Bertolaso, Professoressa di Filosofia della Scienza e Sviluppo Umano all’Università Campus Bio-Medico di Roma, per mettere a fuoco le principali tensioni sottese al passaggio al digitale e come queste impattano sulla vita quotidiana delle aziende.

Si parla spesso di trasformazione digitale in termini di sfida, percependo la sua accezione di minaccia. Perché si avverte questa paura?

«I cambiamenti generano ansia e la revisione di processi consolidati o abitudinari ci obbliga a confrontarci con qualcosa di nuovo, di non sperimentato prima. Un cambio di passo repentino, arrivato prepotente con la pandemia. L’emergenza ha spinto sull’acceleratore del cambiamento e ha reso evidente come le strategie tradizionali non fossero sufficienti o adeguate ad affrontare la situazione».

Lo smart working è un chiaro effetto della spinta al digitale impressa dal Covid-19, ma è ancora un tema divisivo che vede detrattori e favorevoli.

«La gestione dello smart working è diventata uno dei problemi sui tavoli di Consigli d’Amministrazione, Amministratori Delegati, e Risorse Umane.

Uno dei rischi, nei momenti di accelerazione come quello attuale, è scambiare i sintomi con le cause.

Lavorare sul sintomo, nel nostro caso chiederci se attuare o meno lo smart working, impedisce di mettere a punto soluzioni sulla causa effettiva.

In realtà, non è il lavoro da remoto “il problema”. Il problema vero è l’engagement, cioè che le persone abbiano voglia di lavorare e lavorino, mantenendo la produttività indipendentemente dal luogo di lavoro. Questa è la vera questione da affrontare nelle politiche aziendali sullo smart working.

Questo succede perché nelle realtà aziendali prevale un’organizzazione in cui l’uomo è da controllare. Modelli organizzativi ispirati al Taylorismo, vivono una nozione di autonomia basata sull’assunzione implicita del controllo, con direttive chiare e processi precisi, altrimenti si pensa che il lavoratore non porti a termine i suoi compiti. Se non ci scrolliamo di dosso queste premesse, difficilmente riusciremo a implementare nuovi modelli».

Come innescare processi di engagement e andare verso nuovi modelli?

«L’engagement, il coinvolgimento, è sentirsi parte della squadra, avere un ruolo nella partita ed è un’attività strettamente connessa alla Leadership Trasformativa: motivare i collaboratori e fare emergere le buone pratiche, ma soprattutto puntare sull’identità personale e collegarla a quella collettiva dell’organizzazione in cui si è inseriti.

Bisogna recuperare il concetto di “persona intesa nella sua dimensione relazionale” e metterla al centro. In epoche preindustriali, infatti, il singolo era funzionale al gruppo. Dopo la rivoluzione industriale, nella cultura occidentale, siamo passati a una concezione di uomo più individualista (in cui l’individuo era centrale e importante). Serve cambiare paradigma, passare da quello del controllo a quello della cura. Accantonare la logica della prestazione funzionale del singolo e riprendere dimensioni che altrimenti rischiamo di dimenticare. I giovani per esempio hanno già una percezione di sé meno individualistica ma comunque autonoma».

In che modo le aziende possono organizzarsi per fronteggiare le attuali trasformazioni?

«Distribuire le responsabilità e decentralizzare in una logica di “stormo”, che non è solo metafora, ma entità specifica con un preciso modello matematico. La leadership verticale e piramidale, con il CEO chiuso nel suo ufficio all’11esimo piano, oggi non funziona più. È necessario un approccio diverso. Un radicale ripensamento del modello di gestione che da gerarchico diventi sistema imprenditoriale di relazioni, in cui i dipendenti si sentano essi stessi un po’ imprenditori. In una dinamica di stormo, la Governance è distribuita, non c’è un punto di controllo fisso, ma esistono degli hub, che possono cambiare in modo dinamico nel tempo: catalizzano il processo, trasmettono gli input, tenendo compatte le aree periferiche.

Dobbiamo capire come il globale e il locale si mettono insieme. Il razionale delle soluzioni locali è il vero motore dell’innovazione, del progresso, della ricostruzione di un tessuto sociale che sia resiliente, che regga e diventi generativo anche di nuovi concetti di mercato e di impresa».

Quali sono le vie per gestire i complessi cambiamenti di oggi?

«È un momento di sfide globali. La complessità che dobbiamo affrontare destabilizza tutte le vecchie logiche. Ci troviamo dentro un mondo che continua a cambiare, non ci sono più confini consolidati e le strutture rigide risultano inefficaci. Oggi le aziende devono avere la capacità di “surfare”. La strategia del surfing è quella di mantenere la posizione, la propria specifica identità su un terreno che cambia direzione, mutevole. Ma la grossa difficoltà nei momenti di crisi e di transizione, non è solo affrontare la complessità organizzativa, è che le persone ti seguano, che le file si serrino e ci siano consapevolezza ed energia intorno a un nuovo orientamento».

Perché l’innovazione digitale è imprescindibile?

«Il processo di innovazione è necessario. Il digitale ha un potere enorme nell’organizzare tanti dati velocemente e nel dare accesso a dimensioni del reale che prima non vedevamo, di penetrare il mondo e ampliare la visuale, un po’ come è successo con il microscopio e il telescopio. In un’ottica d’azienda ci consente di vedere nuove possibilità d’azione e nuovi principi organizzati, per arrivare a fare di più, facendo meno. Ma è possibile solo con la capacità umana di decidere cosa sia rilevante e cosa no».

Rapporto uomo/macchina, un’annosa contrapposizione?

«L’uomo è naturalmente tecnico, la tecnica è il suo modo di stare al mondo. Gli piace, si diverte a usare lo smartphone o ad andare sulla Luna. Ha costruito le macchine per automatizzare i processi, accelerare, accedere a dati, risolvere. Ma fin da subito ne ha avvertito la minaccia. Il motivo è che l’uomo tende a confrontarsi con tutti, comprese le macchine, in termini di prestazione e non di identità e relazioni. È l’uomo che programma la macchina, inserisce il dato da calcolare. Gli algoritmi lavorano e restituiscono un output all’interno di una domanda che è stata formulata. Quando lo scenario cambia, occorre cambiare il codice semantico ed è possibile solo grazie all’esperienza della persona. La macchina percepisce soltanto il dato mancante. Ma solo la persona percepisce il problema, si pone domande, è in grado di gestire l’imprevisto e di cambiare il punto di osservazione».

Bologna|Milano|Padova|Miami|New York|Orlando|New Delhi|Bangalore|Pune|Ho Chi Minh|Hanoi|Seoul